“Curarsi” con la scrittura

“Curarsi” con la scrittura

Nella scrittura di sé la funzione riparativa è connessa con il fatto che, come sosteneva I. Svevo “raccontandola la vita si idealizza [...], mi pare di non aver vissuto altro che quella parte di vita che descrissi” [1] rappresenta appunto l’idea che la vita raccontata e descritta, viene come sottratta al caso, resa più compiuta e più vera. E come la vita anche noi stessi, “e anche se nessuno mi leggerà ho forse perduto il mio tempo ad essermi intrattenuto per tante ore libere in meditazioni così utili e piacevoli? Modellando su di me questa figura, mi è stato necessario tanto spesso acconciarmi e compormi che ritrarmi, che il modello si è rassodato in qualche modo formato anche esso. Dipingendomi per gli altri, mi sono dipinto a colori più netti che non fossero i primitivi. Non son tanto io che ho fatto il mio libro quanto il mio libro che ha fatto me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità personale, membro della mia vita…”[2].

Come conciliare la funzione “curativa” della scrittura, testimoniata praticamente da tutti coloro che l’hanno usata, con il fatto che essa, almeno in partenza, non abbia nessun destinatario, e quindi non possa realizzare le condizioni che sono necessarie perché si inneschi la cura, cioè il rapporto con l’altro?

Secondo l’ipotesi psicoanalitica l’arte e la letteratura possono essere “curative”, poiché rispondono all’esigenza di un’ attività interna di riparazione. Come sostiene Ferrari, nel suo libro Scrittura come riparazione, e’ possibile vedere l’arte e la letteratura nel loro complesso come una modalità di difesa, poiché in esse è insito il rovesciamento dalla passività in attività, che secondo la teoria di S. Freud sta alla base di ogni processo riparativo, e che consiste nel padroneggiare le situazioni per mezzo della ripetizione simbolica (come il gioco del rocchetto descritto da Freud). La scrittura non si limita a semplice funzione di difesa e rappresentazione, diviene un processo autonomo, si trasforma in un’automatica modalità di controllo. In questo caso il piacere di scrivere coincide quasi completamente con la sua funzione riparatrice nei confronti di un Io che si sente altrimenti scentrato, letteralmente incosciente, cioè privo di una base su cui poggiare. Alla base del meccanismo riparativo, considerato nel suo senso più lato, sta l’elaborazione psichica. L’uomo infatti quando non riesce a liquidare direttamente l’ammontare di affetto tende ad esercitare su di esso, attraverso un lavoro di ripetizione collegato al ricordo, quello che S. Freud definisce una sorta di controllo retrospettivo in grado di legare e neutralizzare via via gli affetti[3].

 Il bisogno e l’urgenza che l’uomo ha di scrivere può essere collegato all’esigenza di trasformare energia libera in energia legata: questa trasformazione, questo legamento infatti coincide per certi aspetti con l’attuarsi stesso della nostra psichicità, intesa naturalmente in quella dimensione autoriflessiva che si realizza soltanto nel momento dell’espressione e cioè nel passaggio dal processo primario al processo secondario. La scrittura dunque può essere intesa come una modalità di difesa, come un modo di elaborare e neutralizzare l’affetto o più semplicemente come sfogo e controllo del dolore, dell’angoscia, della paura, del senso di colpa ecc. Scrittura come “cura” di sé, come riparazione, come occasione e mezzo per superare per elaborare l’affetto connesso a determinate esperienze percepite come traumatiche.

 

[1] Svevo I.,La coscienza di Zeno, Dall’Olio, Milano 1923, p.577.

[2] Montagne M. De, Saggi, Mondadori, Milano 1995, p.888.

[3] Freud S., Al di là del principio di piacere, in Opere, IX, p. 215.

 

Articolo divulgativo a cura di Dott.ssa Cristina Puglia Psicologa e Psicoterapeuta